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  • Immagine del redattoreTommaso Monaldi

Conversazione e Design al tempo del digitale.

Con l’articolo di questo mese traccio un parallelo tra la conversazione nell’era digitale e il progetto, prendendo spunto dal libro di Sherry Turkle La conversazione necessaria.

In relazione all'attuale scenario ragiono infine sul ruolo del mio mestiere oggi. Buona lettura.



Partiamo da tre parole essenziali:

#comunicare = mettere in comune;

#dialogare = convergere;

#conversare = tendere l’un l’altro.


La formula è semplice: se si privilegia la chiusura e l’individualismo e se non ci si mette in discussione, spariscono quelle due cose essenziali che sorreggono sia la nostra società che le nostre organizzazioni, cioè la comunicazione e il dialogo. Ne consegue che certi comportamenti come minimo distruggono anche il buon #progetto.


Progettare è prima di tutto un modo di #pensare e di fare le cose. Ci sono delle attitudini e delle attenzioni che vengono prima delle competenze. Per progettare serve ragionamento, quindi linguaggio. Progettare è linguaggio. Per progettare bene serve anche amore. Progettare è voce del verbo #amare.

Ripeto, progettare non è un processo fisico, ma un modo di pensare che porta a fare le cose in una determinata maniera. Poi ci sono le #competenze tecniche. Essenziali, ma non bastano. Almeno questo è quello che penso, e spiegherebbe anche perché professionisti molto competenti sono stati in grado di realizzare tragedie impensabili.


A pagina 8 del libro della Turkle compare subito un termine inglese che potrebbe riassumere la nostra epoca, il termine è #Phubbing. Phubbing, lo riscrivo perché memorizzarlo è importante, significa mantenere il contatto visivo mentre si sta mandando un messaggio. Traduco, significa riuscire a #sconnettersi dall’altro lasciando “la lucina verde accesa”. Ok, forse l’analogia è ancora troppo digitale. Si insomma, significa riuscire a separare l’espressione del volto dalle azioni di cervello e mani, ovvero mantenere il contatto visivo con chi vorrebbe conversare mentre si è altrove, come dei #superumani, capaci di essere ovunque grazie ad uno #stargate chiamato #smartphone.


L’importante è metterci la faccia no? Ecco, nella nostra epoca anche questo ha preso un significato differente. Oggi ci mettiamo la faccia, mentre siamo altrove. Scritto così forse mi fa capire che in realtà non è cambiato nulla. Ma com’è fatto questo altrove? E' #patinato, #revisionato, #filtrato, #aggiustato. Diciamo sotto controllo, un po’ narciso e veloce, maledettamente veloce.


Ma come facciamo a sentirci bene con le nostre vulnerabilità se l’unico io che esprimiamo è quello patinato online? Come facciamo ad accettarci e ad accettare la vita quotidiana, ad essere felici e con i piedi per terra?


Come possiamo essere #creativi se non siamo più consapevoli delle vulnerabilità che abbiamo dentro, elemento essenziale per venire a contatto con #emozioni e #sostanza dell’essere umano? Come possiamo comunicare se non lo facciamo prima di tutto con noi stessi? Come possiamo organizzare il pensiero e avere delle convinzioni se non siamo consapevoli delle nostre emozioni e pensieri? Come possiamo essere abili progettisti in questo contesto? E infine, cosa significa essere abili progettisti in questo contesto?

Sappiamo che è facendo, confrontandosi, che si comprendono le cose. Nell'articolo Incompetenza e Progetto abbiamo visto come condividendo solo pensieri e #contenuti altrui ci si immedesima, a proprio modo, con presunzione. Ci si mostra come vorremmo, si parla di quello che crediamo di aver capito, senza essere la conseguenza di specifiche esperienze o l’artefice di tali pensieri. Se la comprensione delle cose deriva dal fare e dall’esperienza in prima persona, ne consegue che oggi manca la profonda conoscenza di se stessi, arriviamo a pensare a qualcosa che non abbiamo mai interiorizzato e fatto nostro. Che output si possono produrre e che rotte si possono tracciare in questa situazione? Dove tutto è conseguenza di ripetuti abbagli? Che conseguenza ha tutto questo sul progetto? Sulle decisioni che prendiamo e sulle valutazioni che facciamo? Sicuramente non possiamo più permetterci di procedere per tentativi. Gli eventi del quotidiano ce lo dimostrano.


La #conversazione tra persone con schemi mentali e punti di vista diversi porta spesso a conclusioni #inaspettate. Tutto questo è crescita, innovazione e comprensione reciproca. Senza dialogo è impossibile. Il proteggersi dietro a email e messaggi, lo scambio frettoloso di informazioni e le comunicazioni unilaterali non permettono la scoperta, non permettono quelle soluzioni inattese che fanno fare meglio le cose. Sicuramente non valorizzano le persone. E il design è per le persone. Se non lo è, è feticcio. O peggio.


Durante le conversazioni mi accorgo spesso che le altre persone non sono realmente li, o perlomeno non sono solo difronte a me.


Le informazioni trasmesse sono sempre più istantanee, quasi immateriali, come una sorta di sottobosco notturno con tante lucciole che si spostano. Le notiamo solo quando si illuminano. Tutto questo ci affascina, ma il messaggio è indecifrabile, la comunicazione è assente.

Il dramma è che questo capita anche con tanti progetti di comunicazione che incontriamo ogni giorno. La #sostanza è assente. Miliardi di byte inviati e condivisi nei formati giusti, a ore giuste, su canali giusti, capaci di dialogare con nessuno. Perché è l’umanità che manca, l’attenzione, il rispetto. In questa psicosi la merce che cerco è il silenzio. Sarà per questo che viaggio per deserti. Quando posso. A volte mi viene da definire quest’epoca come l’epoca dell’altrove. Tutti costantemente in un altro luogo, tempo, vita (quella che si potrebbe vivere o che vive qualcun altro). L’emozione è altrove e altrove è la destinazione, in un continuo muoversi.


La #connessione delle persone è la soluzione, ma quella intima. Oggi non ha più senso parlare di on-line e off-line, i due mondi sono una cosa sola. Quello di cui voglio parlare non è della necessità di disconnettersi dal digitale, sarebbe sciocco, sarebbe una perdita immensa.


Parlo di #disciplina e #intelligenza. La disciplina permette l’utilizzo sapiente di devices che possono trasformarci in post-umani, come fossero protesi magiche capaci di connetterci in un'entità unica. Una sorta di organizzazione olografica, tutta l’informazione in ogni atomo del sistema.

La disciplina può renderci parte del tutto e padroni dei nostri spazi, padroni del silenzio creativo, della vera crescita, delle pause che permettono la melodia. Senza disciplina e silenzio, il buon design non esiste. Connettiamoci e poi facciamo #MenoMeglio.


Il design è pensiero, amore, metodo, e questi principi non possono sottrarsi al dialogo, non possono non raggiungere la profondità delle cose per poi liberarne l’essenza. Il design è #gioco, e il gioco è una cosa incredibilmente seria. Noi designer crediamo nel valore del gioco e farlo male mina l’essenza dell’essere umano. Isao diceva che è nel gioco che l’essere umano esprime il massimo della propria intelligenza. Quel che mi vien da pensare è che oggi ci si diverte tanto, ma non si gioca più. Il gioco necessità di intimità e di un terreno condiviso. “La tecnologia non fornisce un’educazione ai sentimenti” dice la Turkle. “I comportamenti derivano dalle emozioni” dice Lash. Non avere un’educazione ai sentimenti, introspezione ed empatia significa non comprendere gli altri. Significa non essere più in grado di progettare per le persone. Significa anche non essere più capaci di giocare. Dobbiamo prenderne atto. Ci sono delle questioni che esulano da skills specifiche e che sono ancora più determinanti per la formazione del progettista da un lato, e del cittadino dall’altro. Se gli uomini e le donne di questo pianeta smetteranno di capirsi ogni innovazione sarà vana.


In questi anni di lavoro mi è capitato spesso di trovarmi difronte clienti impegnati a trasmettermi informazioni come fossi un computer. Quasi mai questo scambio riusciva a confluire facilmente in una conversazione. Poco tempo, attitudine, priorità, diffidenza?

Indipendentemente dal motivo, il fatto è che il progetto è figlio di due genitori: progettista e committente. Se non c’è la volontà da parte di entrambi di perseguire un fine comune, di portare nella conversazione esperienze personali, apertura e ascolto, al fine di raggiungere anche risultati inattesi e capaci di fare la differenza, non potrà mai scaturire un buon progetto. In questi casi quello che cerca il cliente è un esecutore che faccia quello che lui non può fare.


Negli anni ho appreso che le seguenti parole: conversare, comunicare e dialogare, contengono tutti gli elementi indispensabili per la realizzazione di un buon progetto. Tutte le volte che non è così, dovrebbe accendersi un campanello d’allarme.

Tutto le volte che non è così, spesso è dovuto alla mancanza di tempo, trasparenza o commitment. Dal libro della Turkle si evince chiaramente che con la conversazione non si ottengono semplicemente più informazioni, ma si ottengono informazioni diverse. Essa non serve per andare più veloce ma per andare più in profondità. Insomma, noi progettisti dovremmo interrogarci su tutto questo: vale la pena di proseguire in questo modo realizzando l’ennesimo progetto mediocre o inutile? Oggi abbiamo ancora risorse per agire così? Non credo.


Anche il progetto più avanzato finirà per essere sovvertito in mancanza di una cultura del lavoro che abbia al centro il valore della conversazione e della persona. Questo avviene per due motivi: primo perché tutto è sempre più interconnesso, secondo perché le cose vengono fatte e usate dalle persone, con un’enorme dose di irrazionalità.

Nonostante questo, oggi le idee e i comportamenti stanno andando in una direzione opposta. Nelle righe seguenti cito testualmente un estratto illuminante della Turkle, il quale riguarda noi come persone, come lavoratori e come cittadini:

“Condivido dunque sono. Condividiamo pensieri e sensazioni per sentirci parte del tutto. Nella speranza di aumentare le nostre sensazioni ed entrare più in contatto con noi stessi, ci connettiamo con la rete. Nella fretta di sentirci connessi, tuttavia, fuggiamo dalla solitudine; col tempo, però, la nostra capacità di porci con la nostra individualità e presentare tutte le sfaccettature del nostro Io inizia a diminuire. Se non sappiamo chi siamo quando siamo soli, dobbiamo rivolgerci agli altri per trovare sostegno nella nostra coscienza di sé. Questo, a sua volta, rende impossibile comprendere pienamente gli altri per quello che sono. Prendiamo da loro ciò che ci serve, frammentandolo in tanti pezzi; è come se li usassimo come pezzi di ricambio per sostenerci nella nostra fragilità. Se non siamo avezzi alla solitudine, avremo più difficoltà a portare nella discussione le nostre idee con una sana fiducia in noi stessi e la giusta autorevolezza. A patirne è la possibilità di collaborare con gli altri, come anche di godere dell’innovazione, che richiede una capacità di sostenere positivamente la solitudine che le continue connessioni online diminuiscono.”


Nicholas Carr aggiunge a tal proposito:

“Per conservare la propria vitalità, la cultura deve rinnovarsi nella mente dei membri di ciascuna generazione. Se esternalizziamo la memoria, la cultura avvizzisce”.


#Sensibilità, #empatia, capacità di dialogo, di #mediazione e interesse verso quei punti di vista con i quali non siamo d’accordo. Tutto questo è ricchezza, dobbiamo avere il coraggio di tuffarcici dentro per poterci liberare delle paure che ci incatenano in circoscritte aree di comfort.


Sempre più le persone dicono di non avere tempo per parlare, i ritmi sono insostenibili e nei ritagli di tempo le persone raccolgono on-line i pezzetti di vita patinata degli altri, riducendosi ad Arlecchini cuciti con identità altrui. Da cosa stiamo scappando se non da noi stessi?

Interessante l’osservazione di Thoreau secondi cui viviamo in un’epoca “affollata” in cui non facciamo che reagire al mondo circostante anziché imparare prima a conoscere noi stessi.

#Reagire. Questo determina una nevrosi che spinge le persone a postare per sentire qualcosa di sé, per essere. O fare per forza qualcosa senza pensare. Lo stesso parallelismo può essere fatto con le aziende e con le continue corse dei “leader di mercato”, per raggiungere solo obiettivi a brevissimo termine.


Come per la persona che non comprende se stessa, l’impresa pecca di ricerca e progetti di lungo periodo, finendo per essere la somma delle mode anziché una innovativa realtà differenziante.

Infine se le aziende sono fatte di persone, e queste sono più produttive quando non gli è chiesta continua reattività, nello scenario attuale gli insostenibili sforzi sono addirittura controproducenti. Vale a dire che il pensiero richiede solitudine e in una organizzazione continuamente reattiva non si pensa, si reagisce con un #insostenibile dispendio energetico.

Questi sono i tempi in cui le realtà sono orgogliose dei propri ritmi insostenibili. Come in una nevrosi autodistruttiva.


Per Thomas Mann “La solitudine partorisce ciò che più vi è di originale in noi, una bellezza sconosciuta e pericolosa: la poesia.” Per Picasso, “senza una grande solitudine, nessun lavoro serio è possibile”.


Oggi più che mai abbiamo bisogno di meno manager e più #poeti. Meno analisi di mercato e più buonsenso, meno target e più persone, meno banner e più #silenzio.

La metacognizione affrontata anche nell'articolo Incompetenza e progetto è proprio questo, è la capacità di indagare in modo critico i propri pensieri. Bisogna fermarsi, metabolizzare le informazioni acquisite, porsi delle domande e osservare quello che si è fatto. Capiamo benissimo che in uno stato di emergenza continua è impossibile conoscere se stessi, comprendere gli altri e fare bene qualsiasi tipo di cosa. Per questo oggi serve una grande consapevolezza e #disciplina, per trasformare gli straordinari strumenti digitali nell’aiuto di cui abbiamo bisogno, anziché renderli parte del problema. Essi sono interfacce che possono connetterci ad informazioni utili o sconnetterci dalla nostra mente, impedendo il dialogo interiore, unica via per liberare il nostro potenziale creativa.


Liberando la mia immaginazione vedo due diverse tipologie di connessioni: la prima è sempre attiva e connette il tutto. La seconda è intima, collega ognuno al proprio Io interiore. Per ognuno di noi queste due connessioni non possono essere attive contemporaneamente. La prima connessione è 5G, veloce, facile, ci permette di essere ovunque in ogni momento, ma rischia di friggerci il cervello.


La seconda è a 54K, è insopportabilmente lenta, ma conduce ad alcuni contenuti talmente speciali da permettere all’altra connessione di esistere. La quantità di tempo che dedichiamo alle due connessioni determina chi siamo e quello che possiamo fare. Si tratta di scegliere tra #reagire o #creare. Certamente se uno sceglie di essere designer non può non navigare le lenti acque che portano alla poesia.

A proposito di poesia cito #GregorioDiLeo, il cui pensiero condivido appieno: “Oggi ci servono poeti più che manager. Persone che sappiano guardare oltre le linee. Servono esseri umani che sappiamo leggere dietro gli intrecci, spostare la vista, il cuore e fare germogliare un'idea in grado di creare anche solo un piccolo movimento dell'anima. Il desiderio di essere, di vivere intensamente, di parlare in maniera autentica. Di ascoltare, ricevere e dare… Fino a quando rimarremo incastrati nelle narrative correnti, useremo lo stesso linguaggio e immaginari stretti, non saremo capaci di evocare alcun tipo di trasformazione. Il nostro mondo rimarrà sempre lo stesso. Efficiente, veloce, agile magari, ma povero nella realtà. Scarso di creatività e di relazioni.”


Gregorio dice questo parlando di un incontro con #FrancoArminio ad un evento della #Wyde School, la citazione di Franco è fortissima e vibra come il mio #MenoMeglio scritto qualche tempo fa, eccola qui: “Oggi essere rivoluzionari significa togliere più che aggiungere, rallentare più che accelerare, significa dare valore al silenzio, alla luce, alla fragilità, alla dolcezza”.


Quindi si parla di tornare umani, di rallentare per fare le cose bene, allo stesso modo il progetto non può non considerare persone e pianeta, ma la tendenza è opposta. Negli ultimi venti anni per esempio tra gli studenti universitari americani si è rivelato un calo del 40 per cento negli indicatori dell’empatia, lo dice la Turkle citando la ricerca Changes in Dispositional Empathy in American College Students over Time.


Per chiunque si occupi di progetto è chiaro che questi sono elementi fondamentali per lo sviluppo del lavoro quotidiano, momenti e scambi che determinano l’efficacia e l’appropriatezza di un oggetto, un servizio, un messaggio, un’identità visiva. Allo stesso modo chi fa questo mestiere sa che tali sensibilità sono importanti anche nella committenza.

Ma in uno scenario in cui le persone tendono a chiudersi, a capirsi sempre meno e in cui la conversazione vis-à-vis è spesso evitata, è ancora possibile fare buoni progetti? Credo che la funzione #culturale e #sociale nel nostro mestiere sia sempre più rilevante. In un'epoca in cui abbiamo bisogno di stravolgere tutto per sopravvivere, il design non può prescindere dalla comunicazione, dal confronto, da metodi di co-progettazione, comunicazione interna, formazione, incontri di sensibilizzazione, trasferimento di competenze. Il Design non può non avere un rapporto diretto, aperto e trasparente con la committenza e gli stakeholders. O fallirà. O meglio falliremo, tutti.


Ci sono momenti nel processo di progettazione che non possono essere affrontati con dei messaggi o delle email. Ma proprio perché la conversazione di persona implica mancanza di controllo, spesso viene evitata da parte di certi interlocutori. Mentre è facile liquidare una decisione con una email, è molto diverso dialogare attorno ai molteplici temi di un progetto, al fine di trovare soluzioni consistenti e di lungo periodo. Il tempo, l’attenzione e la predisposizione al confronto sono elementi non scontati in molte organizzazioni purtroppo. Per questo penso che infondere la cultura del design nelle imprese sia prioritario. Il rischio altrimenti è quello di ottenere vezzi insulsi caricati di estetica e legati alla sola esigenza di mercato in cui nascono.


Quello che provo a ripetere affrontandolo da vari punti di vista è che


il design è un modo di pensare e fare le cose, questo necessita di dialogo, apertura, contaminazione e disciplina. Se questi elementi vengono meno, le possibilità di avere un buon progetto sono quasi nulle. Ne consegue che la cultura del progetto è un importante elemento da trasferire in quest'epoca di forti e veloci cambiamenti. Questa cultura diviene fondamentale sia per il designer che per la committenza, essendo la conversazione la forza motrice dell’innovazione.

Ma la riduzione di empatia e concentrazione non è solo data dalla presenza fisica dei device, le ricerche sfatano anche un altro mito oggi onnipresente: il multitasking. “Il multitasking dà una sferzata a livello neurochimico che ci induce a pensare di rendere il massimo, mentre in realtà stiamo andando di male in peggio… Una vita di multitasking limita a tal punto le opzioni che non si è più in grado di convertirsi semplicemente all’attenzione profonda.”. Il danno è incalcolabile, ma in certi momenti il multitasking è utile, la soluzione è il pluralismo dell’attenzione, ovvero il saper passare da lunghi momenti di concentrazioni assoluta ad attimi di multitasking. Per fare tutto questo c’è bisogno di metodo, bisogna essere formati. Sapete che il cervello umano impiega circa 20’ a raggiungere la sua massima capacità di concentrazione? Ne consegue che con i ritmi e le modalità imposte oggi diviene quasi impossibile usare e sviluppare a pieno la nostra mente.


Stiamo percorrendo una strada che annienta la possibilità di affrontare i tempi complessi che viviamo, per cui che i metodi del design possono essere d’aiuto. Ma da soli non bastano. Sono sempre più convinto che il futuro di questa disciplina sia quello di permeare le altre discipline. E' necessario quindi un cambio profondo che permetta a tutti di poter affrontare la complessità in modo sistemico e creativo. Credo che una rivoluzione positiva sia possibile solo in conseguenza di un’evoluzione del sistema culturale, manageriale e soprattutto dell’istruzione.


Chi pensa al design come al bianco e “tirato” elaborato visivo, come al prodotto da ammirare, come all’architettura magnifica ma fredda e vuota, non ha capito che quel mondo è un’altra cosa, in quanto esclusiva.


Il design invece è inclusivo, connettore, evolutivo, innovativo, è poesia e vuole migliorare la vita delle persone. Dobbiamo pensare il design in coerenza con il “Game” dello straordinario Baricco.


Non deve interessarci neanche replicare caricature di un tempo passato e insostenibile, oggi il design è sempre più metodo, servizio, esperienza, processo, efficienza, sostenibilità, poesia; e tutto questo insieme è straordinaria bellezza. Un prodotto umano per esseri umani, in equilibrio con il pianeta.


Qualche anno fa lavoravo come designer in un'impresa marchigiana vocata all’innovazione. Anche allora la mancanza di comunicazione e di contaminazione tra le persone era al centro dei miei pensieri. Come al solito la causa era la frenesia a cui tutti siamo costretti. Appoggiato da alcune persone illuminate dell’impresa mi inventai una cosa che chiamai #ConnectiveRoom, il cui fine era quello di risolvere in modo creativo delle problematiche legate ad un progetto enorme, portato avanti da più team contemporaneamente. Letteralmente spedimmo un gruppo eterogeneo e multidisciplinare di collaboratori dell’impresa in un Eremo in mezzo a sette ettari di bosco. Organizzammo una giornata ricca di confronti, dialogo e stimoli, il tutto assieme a designer, comunicatori, ingegneri e persino un antropologo specializzato in identità e innovazione d’impresa. Si posero le basi per un progetto di Human Machine Interaction che durò tre anni. Ecco, questo per me è design.


L’imprenditore della stessa impresa un giorno mi chiese quali erano i sogni dei colleghi a me più vicini. Realizzai che non li conoscevo e capì in un attimo cosa c’era di sbagliato nel modello di oggi. Di metodi per ovviare a tutto questo ce ne sono diversi, dal rendere il caffè della mattina un rituale obbligato e condiviso, al progettare un edificio secondo una pianta che agevoli le relazioni, ma la cosa importante è che chi si occupa di design oggi non può non considerare queste cose.


Oggi le competenze del visual design si mischiano con il management per prendere decisioni complesse in modo più consapevole, per ricordare meglio o per vedere ciò che facciamo fatica ad immaginare. Tutto questo è applicabile ad ogni livello grazie alla contaminazione e al progetto. Oggi vengono persino usati memetracker simbolici e altri escamotages come supporto alla memoria per le riunioni, essendo ormai assodato che quasi una persona su due durante i meeting fa altro. Progettare tenendo a mente la vulnerabilità delle persone ed evitando ciò che mina l’attenzione è un metodo oggi sempre più utile.

Oggi è cambiato tutto.


Per me il futuro del design è cambiare di stato e divenire vapore, per diffondersi, facendo fiorire un nuovo Humus fertile e pronto per le sfide del futuro.

Il resto a me non interessa.

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